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 Il Commissario De Vincenzi (Raccolta Completa: 8 Storie)

Sommario
Il Commissario De Vincenzi (Raccolta Completa: 8 Storie)
Il banchiere assassinato (1935)
Sei donne e un libro (1936)
Giobbe Tuama & C. (1936)
La barchetta di cristallo (1936)
Il canotto insanguinato (1936)
Il candeliere a sette fiamme (1936)
L'albergo delle tre rose (1936)
Il do tragico (1937)

Il banchiere assassinato (1935)

Augusto De Angelis


Sommario
Il banchiere assassinato (1935)
Capitolo 1 Nebbia
Capitolo 2 Monforte... quaran...
Capitolo 3 Le prime indagini
Capitolo 4 La prova terribile
Capitolo 5 Un giovane biondo, in una soffitta...
Capitolo 6 «Non so!... Non so nulla!»
Capitolo 7 Il conte Marchionni
Capitolo 8 Le due rivoltelle
Capitolo 9 «Sono stata io ad ucciderlo!»
Capitolo 10 Un grande amore
Capitolo 11 Un dolore più forte del dolore
Capitolo 12 Tenebre
Capitolo 13 Tentativi
Capitolo 14 La conferenza di De Vincenzi
Epilogo

Capitolo 1 Nebbia

Piazza San Fedele era un lago bituminoso di nebbia, dentro cui le lampade ad arco aprivano aloni rossastri.

L'ultima auto s'allontanava lentissimamente dal marciapiede del teatro Manzoni, facendo risuonare sordamente il claxon. Il teatro chiudeva le sue grandi porte nere.

Qualche ombra fantomatica traversava la piazza. Due ombre si scontrarono allo sbocco di via Agnello e una di esse notò che l'altra era quella di un signore in abito da sera, pelliccia e tuba. Il signore per suo conto non vide che un'ombra nera. Non guardava neppure, del resto. Camminava. Procedette dalla piazza per via Agnello, nella nebbia, lentamente. Andava.

L'uomo, come se avesse riconosciuto colui col quale s'era urtato, si voltò per seguirlo. Ma subito si fermò, indeciso, trasse l'orologio e, accostatoselo agli occhi, vide che era la mezzanotte passata da qualche minuto. Alzò le spalle e tornò sui suoi passi, dirigendosi in fretta verso il grande portone della Questura, dentro cui entrò.

«E allora, cavaliere?»

«Ah!… Che vuoi?»

«C'è niente?»

«Hai domandato a Masetti?»

«Perché?… A quest'ora la ‹squadra› è ancora aperta?»

«Dev'essere tornato Masetti… L'ho mandato a Porta Ticinese. Senti un po' quel che ha fatto.»

«Furtarelli, De Vincenzi… E avrà trovato i tre braccialetti dal ricettatore.»

La rotonda faccia di De Biasi, apoplettica, sogghignava.

«È la sua specialità… trovare i braccialetti dai ricettatori… »

«E la tua qual è, De Blasi? L'astinenza?… »

«Non mi vanterei, certo, d'essere un bevitore d'acqua e limone, come te… »

De Vincenzi alzò le spalle, sorridendo. Quel giornalista, tondo e rosso come un segnale di via ingombra, gli piaceva. Con quella rotonda faccia da avvinazzato, era sveglio e pronto. Il migliore senza dubbio del Sindacato dei reporters e fargliela non era facile.

«Ognuno ha le sue debolezze, De Blasi… »

«La mia non è una debolezza; è una forza. Senti un po'… »

Entrò nella stanza e chiuse la porta dietro di sé. De Vincenzi si alzò di scatto, nascondendo sotto un pacco di pratiche il libro che stava leggendo.

«Ho sentito! Se tu ti metti a sedere, te ne vai domattina e io la tua teoria sulle virtù molecolari del vino la conosco… »

De Blasi non si scompose, guardò la stufa e fece una smorfia.

«Quando vi cambieranno le stufe, qua dentro? Quella lì appesta. Se tu credi che io potrei resisterci… Hanno imbiancato il cortile, hanno cambiato i mobili su dal Questore… Hai veduto i divani rossi?… Un po' duretti; ma per adesso senza macchie d'unto. Però, a voialtri le stufe vecchie e la carta sbiadita alle pareti non le cambiano, eh?… Sei di ‹notturna› stanotte?»

«Senti, De Blasi… » e il commissario, girando attorno alla tavola, si avvicinò al giornalista. «Tu sei simpaticissimo; ma io per un'ora o due desidero rimaner solo… Vattene a trovar Masetti, vattene al ‹Pilsen›, vattene in Galleria… »

«Con la nebbia e tre gradi sotto zero!… Sarai matto!… »

«No, al ‹Pilsen› c'è caldo… E poi tu fai presto a riscaldarti… »

«Leggevi?»

De Vincenzi lo spingeva verso l'uscio e De Blasi, pur lasciandolo fare, gli indicava il mucchio delle pratiche sul tavolo…

«Hai sepolto il tuo vizio sotto i reati e i delitti! Quanti ladri e quanti ricettatori pesano adesso sopra Pirandello?»

«Vattene! Non è Pirandello.»

«Sì, me ne vado. Ma è vero che studi la psicoanalisi? Me lo ha detto Ramperti… Un giorno di questi mi devi prestare Froind… si dice così?… Chi è Froind?… »

«Un signore, che giustificherebbe tutti i tuoi peccati, dicendo che è di notte che te li sogni… »

«Curioso!… Ma perché hai fatto il poliziotto, tu, De Vincenzi?»

«Per avere il piacere di arrestarti, un giorno di questi. L'ubriachezza molesta è contemplata dal codice… »

«Uhm!… Quando mai mi hai veduto ubriaco, tu?… Vieni al ‹Pilsen› più tardi?… Oppure da ‹Cassè› alle quattro?»

«Sì, da ‹Cassé›… Arrivederci.»

Chiuse la porta, mise un legno nella stufa e aprì il tiraggio. Per fumare, fumava, quella stufa. Si guardò attorno. La stanza dell'ufficio di notturna era squallida. Sul tavolo bruciacchiato dalle sigarette e che perdeva qua e là l'impellicciatura, coperto quasi dagli stampati, dai moduli, dalle cartelle, il telefono tutto nuovo e lucente, sembrava un oggetto di lusso messo lì per isbaglio. O anche una macchinetta chirurgica.

Tornò a sedere, prese il libro, sotto il pacco delle carte.

Non era Freud. Era Lawrence. Le serpent à plumes. I sensi…

Aprì il cassetto e toccò altri due libri: l'Eros di Platone e Le epistole di San Paolo.

Si rovesciò sulla sedia e guardò il soffitto: perché mai aveva fatto il commissario di Pubblica Sicurezza, lui?…

Ebbe un sussulto e gridò nervosamente:

«Avanti!» richiudendo in fretta il cassetto. «Tu!… E che vieni a fare a quest'ora?… »

Alto, magro, elegantissimo, col frak sotto la pelliccia e la tuba in testa, Giannetto Aurigi entrò in fretta, si tolse la tuba e rimase in piedi davanti al tavolo, fissando De Vincenzi.

Aveva gli occhi brillanti, stranamente lucidi, il volto esangue, contratto, scarno.

Sorrideva e, nel sorriso, le labbra sottili sparivano, sicché la bocca sembrava un taglio.

Quel pallore e i pomelli rossi colpirono De Vincenzi.

«Freddo?»

«Nebbia! Da piazza della Scala non si vedono le lampade ad arco della Galleria… Aghi sulla faccia e le dita intirizzite… »

De Vincenzi lo fissava curiosamente, interessato.

«Dentro la ‹Scala› il sole d'Egitto sui flabelli e sulla gloria dei Faraoni… Subito fuori, il vigile, che batte i piedi… »

Schiacciò il gibus, che aveva tra le mani. Si guardò attorno e lo andò a posare sul piano di una specie di scaffale, pieno di cartelle legate.

Si tolse la pelliccia e l'attaccò a un chiodo. Poi, lentamente, fregandosi le mani bianche lunghe affusolate, andò a sedersi.

«E tu sei venuto a San Fedele?!»

«Eh?… »

Si era astratto e la domanda lo aveva fatto sobbalzare.

«Ma sì, non è la prima volta… Sapevo che eri tu di servizio… »

«Tutte le sere sono di servizio qui o di là e tu da molto tempo non venivi… »

«Già… Ma non perché non pensi a te. Mi sei caro, tu! Di tutti i compagni di collegio il più caro, anche se… »

Si fermò, preso come da un leggero impaccio o perché il suo pensiero aveva cambiato corso. Rise. Si guardò attorno.

«È triste, qui… »

«Un ufficio di Questura come un altro. Ma tu dicevi: anche se… Anche se sono diventato funzionario di Polizia, vero?»

«Dev'essere una vita da cani!… Mah! L'inclinazione naturale! Ci sono i ladri. Natura anche quella!»

«Già… »

De Vincenzi macchinalmente toccò il libro, che aveva dinanzi. Per una inconscia reazione, di cui non si rese conto, aggiunse:

«I ladri e gli assassini… »

«Che c'entra?»

E la voce di Aurigi suonò stridula, quasi falsa.

«Faccio per dire. Sei impressionabile, stanotte! L'Aida?… »

L'altro rise:

«Credi che influisca sui nervi?… Può darsi.»

Distese le lunghe gambe ed appoggiò la nuca alla spalliera della seggiola. Socchiuse gli occhi.

De Vincenzi lo guardava. Perché mai era venuto a quell'ora? E perché era venuto?

Compagni di collegio erano stati e amici. C'era molta cordialità tra loro: ma forse non la confidenza. Dove trovarla la confidenza, del resto, in questi tempi, tra uomini lanciati ognuno verso il proprio destino, con le proprie passioni, i propri bisogni, i molti vizi del corpo umano?

Ognuno di noi ha un segreto e beato colui che ne ha uno confessabile.

Qual era il segreto di Aurigi, che, alle due circa di notte, aveva sentito il bisogno di venire a trovare lui e che gli si stava addormentando davanti, lì sulla sedia, come schiantato dalla fatica o dalle veglie o da un torpore malsano?

Squillò il telefono sul tavolo e l'assonnato diede un balzo.

«Che c'è?»

De Vincenzi sorrise:

«Nulla! Il telefono… »

Prese il ricevitore e rispose:

«Pronto… »

Pronunciò qualche monosillabo e riappese il cornetto. Guardò l'altro:

«Potevi continuare a dormire… »

«Scusami! La musica di Verdi… »

Evidentemente, cercava di darsi un contegno. Indicò con la mano:

«Sarà il tuo martirio e il tuo incubo, quel telefono lì… »

De Vincenzi mise la mano sulla scatola nera e lucida, toccandola quasi amorosamente.

«Il mio caro tirannico telefono! È lui che alla notte, nelle lunghe ore di veglia, mi unisce alla città… Esagero. Diciamo al mondo, al mio mondo di commissario, capo della ‹squadra mobile›. È per suo mezzo che mi arrivano le voci di allarme, primi richiami disperati… »

Ebbe un sorriso indulgente, come se compatisse se stesso:

«Per lo più, sono portinai svegliati dal rumore dei grimaldelli o dallo schianto secco di un colpo di rivoltella o semplicemente dagli schiamazzi di una comitiva di disturbatori notturni. Guardalo!… È tozzo, nero, inespressivo, per te. Niente altro che una scatola con un buffo cornetto e un cordone verde. Ma per me ha mille voci, mille volti, mille espressioni. Quando squilla, io so già, se mi reca un richiamo d'ordinaria amministrazione oppure se mi annuncia un nuovo dramma, una tragedia d'amore e di delinquenza… »

Aurigi sogghignò:

«Il mistero da squarciare!»

‹Fa' pure dell'ironia. Hai ragione. È così raro il caso di un mistero. Lo vorrei! Ma non lo cerco più e non lo aspetto neppure. Nel senso che tu puoi credere: il mistero poliziesco, l'enigma… un colpevole da individuare e da prendere… No, no!… La vita è molto più semplice e molto più complessa nello stesso tempo. Però, vedi, c'è sempre un mistero, che mi appassiona, tragico, fondo… Il mistero dell'anima umana.»

«Poeta!»

Aurigi rivide dinanzi a sè il compagno di un tempo. Anche in collegio faceva versi e declamava tutto solo, come un invasato.

«Io mi domando… »

«Perché abbia fatto il poliziotto? Sei già il secondo che se lo domanda, questa notte. Ma appunto per questo ho fatto il poliziotto: perché forse sono un poeta come tu dici. Io sento la poesia di questo mio mestiere… La poesia di questa stanza grigia, polverosa… di questo tavolo consumato… di quella povera vecchia stufa, che soffre in tutte le sue giunture, per riscaldar me. E la poesia del telefono! La poesia delle notti di attesa, con la nebbia sulla piazza, fin dentro il cortile di questo antico convento, che oggi è sede della Questura e ha i reprobi al posto dei santi! Delle notti in cui nulla avviene e tutto avviene, perché nella grande città addormentata, anche nel momento in cui parliamo, i drammi sono infiniti, se pure non tutti sanguinosi. Anzi, i più terribili sono appunto quelli che non culminano in un colpo di rivoltella o di coltello… »

Si fermò, come se un'idea improvvisa lo avesse fatto riflettere.

«Già… Poeta!… Tu, per esempio, Giannetto… »

Il sussulto di Aurigi fu repentino, visibile.

«Io?… Che dici?… Quale dramma vuoi che ci sia in me?… »

«Ma no!… Chi pensa ad un tuo dramma? Dicevo: tu, Giannetto, sei un poeta come me!… Non è forse per amor di poesia, che ti sei ricordato stanotte del tuo compagno di collegio e sei venuto qui? Perché, infatti, saresti venuto, se non per questo?»

«Tante altre volte sono venuto e tu non te ne sei meravigliato… »

«Già… Ma questa sera è diverso.»

«Indaghi?»

De Vincenzi ebbe un lampo.

«Tu hai bisogno di me, questa notte, Giannetto!»

«Ma certo!… Non sei tu, forse, che puoi darmi l'imprevisto? Alla ‹Scala› mi aveva preso uno strano torpore. Nel palco mi sono addormentato. Ero sopraffatto da uno sfinimento dolce e morboso. Poi… »

«Eri solo?»

«Nel palco? No. È il palco dei Marchionni. C'era Maria Giovanna e sua madre. Poi è venuto Marchionni. Io dormivo… Uno scandalo… Mio suocero… il mio futuro suocero mi ha fatto andare con lui nel ridotto, per farmi la predica. Erano molti giorni che cercava un pretesto, per farmela. Dice che giuoco, che passo le notti al circolo, che mi uccido nei bagordi e che perciò mi addormento, quando mi trovo con la mia fidanzata. Ha parlato di forti perdite, che io avrei fatte. Dice che anche in Borsa ho chiuso il mese con una differenza impressionante… »

«È vero?»

«Che gioco? No.»

«E in Borsa?»

L'esitazione di Aurigi fu brevissima. Fissò negli occhi De Vincenzi e alzò le spalle.

«Oh! le Tessili sono precipitate… »

«Ne avevi molte?»

«Qualcuna. Ma, se mai, questa era proprio una ragione per star sveglio! No, no. È un'altra cosa. Te l'ho detto: mi sento sfinito. Ho lasciato il teatro prima della fine del terzo atto. Avevo bisogno di camminare. La nebbia… il freddo… la città quasi deserta… Ho fatto la Galleria e sono tornato indietro. Sono venuto qui da te… Ti dò noia?»

«Mi preoccupi.»

«Scherzi, vero? Non ti immaginerai che abbia qualcosa d'insolito, di grave, da rivelarti! Sarebbe buffo!… »

De Vincenzi assunse l'aria del buon fanciullo, che fa tante domande per curiosità. Sorrideva.

«A che ora finisce il terzo atto dell'Aida

«Non lo so!… Le undici… le undici e mezzo… Più tardi, forse.»

«E avevi freddo?»

«Io?… Perché?»

«Sei venuto qui all'una e mezzo… Fà il conto.»

Aurigi scrollò le spalle.

Di scatto, De Vincenzi si alzò e andò verso il calendario appeso alla parete. Pose il dito sul numero rosso e guardò Giannetto.

«Domani ne abbiamo 28… »

Un lampo di terrore passò negli occhi di Aurigi. Visibilmente, la sua forza di finzione lo abbandonò ed egli di colpo apparve smontato. Mormorò, convulsamente:

«Eh! sarà la fine!»

De Vincenzi gli si accostò.

«Dentro sino al collo, dunque? Così?… »

Un sorriso sinistro contrasse la bocca di Giannetto.

«Ma tu scherzi, De Vincenzi!… Che volevi dire, tu? Che è la fine del mese, semplicemente… E questo ho detto anch'io.»

«Già. Chiusura di mese e di conti. Le Tessili?»

«Quelle sono in ripresa!»

«E tu?… »

«E io?… Ho gli Acciai»

«Che crollano.»

«Come lo sai?»

«Lo vedo scritto sul tuo volto.»

«Sì, crollano. È inspiegabile, ma è così. Attraverso un momento atroce, De Vincenzi. Hai detto: fino al collo?… Di più… di più… »

Si alzò e fece qualche passo per la stanza angusta. Si muoveva come un automa.

De Vincenzi lo guardava e non avrebbe saputo dire a se stesso, se in quel momento era maggiore in lui l'apprensione per la sorte dell'amico o il desiderio freddo e spietato di guardargli sino in fondo al cervello, di scoprirne il segreto nascosto.

«Via!… Tu sei un bel giocatore! Fin dal collegio, lo eri. Resisterai… Ti rifarai… »

Allora, Aurigi parlò in fretta, come per liberarsi con uno sfogo improvviso.

«No! Non posso resistere! Questa volta non posso più. Già il mese scorso era grave. Dovetti dar fondo a tutte le risorse. Se ti dico la cifra, non la credi. Questo mese dovevo rifarmi e ho giocato tutto. Ho lasciate le Tessili e ho preso gli Acciai… Più che potevo… Come un forsennato o come un chiaroveggente, che è poi la stessa cosa!… Tu non puoi capirmi!»

«Ti capisco. Continua.»

Aurigi s'irrigidì.

«Perché? Perché mi fai parlare?»

«Non sei venuto qui, da me, per questo?»

«Per raccontare a te la mia rovina?!… Sei pazzo! A che scopo? Puoi darmi mezzo milione, tu? Ah! Ah!»

Rideva. Era chiaro che non poteva trattenersi dal ridere, a quell'idea.

«Puoi darmi mezzo milione?» ripeté.

«No, evidentemente io non posso darti quella somma… Ma il conte Marchionni… »

Giannetto si fermò e guardò De Vincenzi ad occhi spalancati, come se non capisse.

«Marchionni?»

«Naturalmente… Non deve essere tuo suocero? Quando ti sposi? Non è ricchissimo, Marchionni?»

L'altro alzò le spalle violentemente e riprese a passeggiare.

D'un tratto si fermò.

«De Vincenzi, tu mi hai fatto parlare e io non ne avevo voglia. Sono venuto da te, per non pensare. Due ore, hai detto? Sarà benissimo. Ma, se mi chiedi dove son andato per due ore, tra la nebbia, non lo so. Ho camminato. Ad un tratto mi son trovato in Galleria… E sono venuto qui, da te… »

Sarcastico, De Vincenzi lanciò:

«In Questura!»

«Ma sì: da te, non in Questura. Era un diversivo. Tu potevi avere un bel delitto da raccontarmi. E un bel delitto, mio caro, mi avrebbe dato il mezzo di non pensare alla mia rovina.»

De Vincenzi fece appena in tempo a dirsi che l'accento e l'aspetto di Aurigi erano paurosamente sinistri, quando il telefono nero, sul tavolo, squillò a tre riprese rabbiose, laceranti come tre gridi disperati.

Capitolo 2 Monforte... quaran...

«Pronto!»

De Vincenzi era andato a sedersi al tavolo ed aveva afferrato il ricevitore. Aurigi gli voltava le spalle e fissava il calendario.

«Sì, squadra mobile… Sono io… Ciao, Maccari… Di pure… No, aspetta… »

Prese una matita e tirò a sé sul tavolo un blocco di carta.

«Dimmi ora, chè scrivo… Bene… Monforte… quaran… »

La voce s'interruppe e De Vincenzi continuò a scrivere in silenzio. Aveva represso a fatica un sussulto e il suo sguardo era corso rapido e terrorizzato a Giannetto, che gli voltava sempre le spalle. Poi aveva riabbassato il capo sul foglio di carta. Per un momento era stato come se un gran vuoto gli si fosse fatto nel cervello; ma aveva subito vinto lo smarrimento e, quando tornò a parlare dentro il cornetto, la sua voce suonò calma e indifferente.

«Va bene… Ho capito benissimo il numero… e anche il nome… È morto?… Capisco… Tu mi aspetti, naturalmente… Vengo subito… Porterò gli agenti che ho sottomano; ma preparati a lasciarmene qualcuno dei tuoi… Ciao.»

Lentamente, riappese il ricevitore. Aveva lo sguardo duro e la mascella contratta.

«Che c'è?… » chiese Giannetto, voltandosi. Vide il volto dell'amico e ripetè quasi con paura:

«Che è successo?»

«Niente!… Affari… d'ordinaria amministrazione. Volevi un bel delitto, eh!»

Premette il bottone del campanello e fissò ancora Aurigi:

«Perché, proprio stanotte volevi un bel delitto, tu?»

«Io?… Ma che hai, De Vincenzi?»

«Sei sicuro d'aver passeggiato per due ore?»

«Ma sì. Te l'ho detto. E che c'entra, adesso?»

Basso, tarchiato, un torso quadro e muscoloso su due gambe troppo corte, il brigadiere Cruni era comparso sulla soglia.

«Ha chiamato me, cavaliere?»

«Sì. Tu e tre agenti. Un tassì. Subito.»

Cruni chinò il busto in avanti con una specie di inchino, che era saluto e risposta e fece per andare. Il commissario gli gridò dietro:

«Mandami Paoli!»

Poi rapidamente prese il pastrano e lo indossò.

«Esci?» fece Aurigi. «Vengo con te… »

«No. Non puoi. Aspettami qui.»

«Perché vuoi che ti aspetti qui? Sono quasi le tre. Me ne vado a casa.»

Per quanto padrone di sè e oramai deliberato a non vedere nell'amico d'infanzia che un «caso» interessante la sua ragione e il suo dovere, De Vincenzi trasalì visibilmente.

Quasi inconsciamente ripeté:

«A casa? A casa tua

Aurigi lo guardò sorpreso.

«Ma sì. Oh! dove vuoi che vada? Ma che hai, Carlo? Impazzisci?»

«Ti sembra?»

Stava per fermarsi e mettersi ad interrogarlo. Poteva essere un mezzo. Ma subito ci rinunciò e fu con voce fredda che disse:

«No, non andartene. Aspettami qui. Te ne prego. Avrò qualcosa da raccontarti, al ritorno.»

L'altro alzò le spalle.

«Come vuoi! Infatti, perché dovrei andarmene a casa?… »

Sorrideva. Sedette.

L'agente Paoli comparve nel quadro della porta.

«Son qui, cavaliere.»

De Vincenzi si mise il cappello, fece un segno di saluto ad Aurigi e raggiunse rapido la porta. Paoli si trasse da parte. Il commissario gli sussurrò brevemente un ordine e sparì.

L'agente aveva trasalito e adesso fissava con curiosità professionale l'uomo in frak, che, seduto tranquillamente, tamburellava con le dita sul tavolo del commissario.

«Mi fate compagnia?»

«Se non la disturbo… »

L'accento della guardia non era né ironico, né rude; ossequioso, piuttosto.

«A me?… Sedetevi… »

E spinse verso di lui, sul tavolo, l'astuccio aperto delle sigarette.

«Ecco gli altri, se Dio vuole! Per questa notte sarà finita… »

Aveva squillato il campanello. L'agente si era alzato dalla poltrona e si dirigeva lentamente verso la porta d'ingresso.

Il salotto era tutto illuminato. Troppa luce. Una luce da ricevimento, o da operazione chirurgica. Le tre porte erano spalancate. Quella di sinistra, che dava sull'altro salottino più piccolo; quella di destra della sala da pranzo; e quella di fondo, che s'apriva sulla stanza d'entrata.

L'altro agente scrollò le spalle:

«Come se non si stesse meglio qui dentro che al Commissariato!»

Sulla porta del salottino era apparso il commissario Maccari. Grassottello, rotondo, tutto pieno di bonarietà, Maccari aveva le mani in tasca. Ma il volto contratto rivelava in lui un senso d'orrore, di pietà, di concentrazione preoccupata, che faceva strano contrasto con quella sua aria pacifica da buon borghese.

Stava lì sulla soglia e guardava il suo agente, senza vederlo. Parlava tra sé, smozzicando le parole tra i denti.

«Mah!… Un brutto delitto… E chi ci capisce un accidente, è bravo!… Perché quel disgraziato è venuto a farsi ammazzare proprio qua dentro?»

S'accorse che l'agente stava seduto davanti a lui e lo guardava, sorpreso. Batté gli occhi, come se si svegliasse.

«Avete frugato dappertutto, voi?»

«Così, cavaliere… Una prima occhiata!… »

L'agente si era alzato e, quando gli fu vicino, gli disse con accento desolato:

«Intanto… »

«Intanto ce lo tolgono, eh?»

«Già… Lei, cavaliere, ha chiamato il commissario De Vincenzi, no?… Squadra mobile… La Centrale assumerà direttamente le indagini… È un delitto importante. A noi ci lasciano i furti e gli scassi… »

Lo scatto del commissario fu sincero, quasi violento.

«E voi ringraziate Iddio, questa volta!»

«Oh! Per me… Ma davvero a lei sembra tanto oscuro questo delitto?… Il nome sulla porta… il nome nelle tasche del morto… la porta spalancata e senza segni di scasso… le luci accese… »

Maccari lo interruppe con bonarietà.

«Spente, figlio mio!»

«Ma no, cavaliere!… Accese… Tutte come adesso, le abbiamo trovate… tutto l'appartamento illuminato a giorno… »

«Già! E c'era buio… Buio!… Le luci erano accese, ma c'era il buio, figlio mio… e qualcosa di losco, di viscido nel buio, date retta a me!… Non è finita! Vi dico io che questa storia è appena cominciata!… »

Sulla porta di fondo era apparso De Vincenzi. Dietro di lui si vedeva il volto curiosamente proteso dei due agenti, che egli conduceva con sè.

«Buona notte, Maccari!»

«Ciao!… Scusami d'averti disturbato, ma non potevo fare altrimenti… »

De Vincenzi si guardava attorno. Fissò subito il lampadario, che era tutto acceso, e batté le palpebre a quel chiarore, perché lui veniva dalla strada con la nebbia.

«Figurati!… E poi… Tu non sai ancora quanto hai fatto bene a chiamarmi… Ti dirò… »

Si guardò di nuovo attorno.

«Tutto così?» chiese.

«Tutto» rispose l'altro. E nella sua voce c'era come un accento di condiscendenza. Maccari sapeva quel che adesso il suo collega più giovane si sarebbe messo a cercare. Le tracce, gli indizi, le orme, la cenere delle sigarette, il profumo nella stanza… E non ne rideva neppure, del resto.

Ma volle mettere le cose in chiaro.

«Del resto, io sono venuto da un quarto d'ora, soltanto… Ho dato un'occhiata… Mi son reso conto che l'affare non andava e t'ho telefonato subito… Tu sei giovane, hai da far carriera, tu!… Io?» Ebbe un sorriso amaro. «Oramai!… E per di più i morti mi fanno impressione. Ne ho visti da che vivo più d'uno… Forse, parecchi… Certamente troppi pei miei nervi!… Che vuoi?… L'uomo vivo lo detesto… Se fossi sanguinario, ucciderei, io! Ma l'uomo… cadavere mi fa pietà… e mi fa terrore.»

Aveva avuto un fremito. Tornò a guardarsi attorno, per mutar corso alle idee.

«Sì, tutto com'era quando siamo entrati. Il telefono è lì nell'entrata… Lo avrai visto… Ho telefonato alla Guardia medica, che mandino un dottore… Ma ce n'era uno solo, che ha dovuto avvertire un suo collega a casa… Verrà, quando verrà… È morto, può aspettare. Vuoi vederlo?»

De Vincenzi non s'era tolto il cappello, per un'abitudine della sua professione. Quella per lui, in quel momento, non era una casa privata; era il luogo del delitto. E rimaneva lì, in mezzo alla stanza, con le mani nelle tasche del soprabito. Sì, il morto avrebbe dovuto vederlo, o presto o tardi. Ma qualch'altra cosa doveva dire, prima, al suo collega.

Non ebbe esitazioni; sebbene un leggero fremito gli rendesse più acuta la voce.

«Sai, Maccari? Questo è l'appartamento di Giannetto Aurigi e Aurigi, per uno di quei casi che non mi fanno meraviglia, tanto forte ormai è in me la convinzione che il caso solo ci governa, è mio vecchio amico… compagno di collegio… e proprio stanotte… » S'interruppe. Perché dir tutto? «Non importa!… Quel che importa, invece, è che, appunto perché Aurigi è mio amico, tanto più è necessario che io abbia i nervi a posto e che cominci dal principio a non commettere errori. Sento già che, se mi sfugge qualcosa, non mi ci ritrovo più. È meglio che vada adagio, con cautela.»

Si tolse il cappello, perché sentiva caldo, adesso. Lo posò sul tavolo e sedette.

«Raccontami.»

Maccari lo aveva ascoltato, fissandolo. Lo scrutava, a quel modo che fanno le persone grasse e bonarie, con gli occhi socchiusi. Sembrava che ammiccasse, e non sorrideva neppure, invece. Ma quando parlò, sul principio, le sue parole erano venate d'ironia.

«Sì, lo so, è un metodo anche questo… Adesso seguite il metodo, voialtri giovani… Ma aspetta… Mi son messo a studiare anch'io… Un po' tardino; ma non credere che lo faccia per imparare. Lo faccio per rendermi conto di quanti errori abbia commesso o evitati io, così ignorante come sono, da trent'anni a questa parte…

«I cadaveri ti rendono amaro, Maccari!»

«No! Aspetta… Volevo citarti proprio io una regola del tuo metodo… Eccotela… »

E la enunciò, come se recitasse un versetto imparato a memoria.

«Il valore d'un fatto non è nella sua rarità, ma piuttosto nella sua volgarità e prima di pretendere alla chiaroveggenza di ciò, che è invisibile agli occhi della carne, conviene esercitarsi alla chiaroveggenza di ciò che è troppo visibile e, appunto per questo, non attira l'attenzione… »

S'era accostato, rivolgendo adesso verso di sé le punte della sua ironia.

«Bello, eh?»

«Se si potesse far sempre a quel modo!… E così?»

«Così, meno d'un'ora fa, ho ricevuto una telefonata… Venite subito in via Monforte, quarantacinque… è stato commesso un assassinio… Chi è che telefona? … Pronto! Pronto!… Ma la comunicazione era stata tolta… Con gli automatici, lo sai, non si può controllare di dove telefonano… Sono stato un po' in forse. Ti confesso che sulle prime ho creduto ad uno scherzo… Poi mi son detto: se faccio una passeggiata e non trovo niente, il male è minore di quel che sarebbe, se il morto ci fosse e io non vi andassi… Arrivo qui e trovo il portone semichiuso, la luce accesa per le scale come rimane di solito tutta la notte nelle case signorili e non un'anima… Ma il portone era semichiuso. Capisci? Da quel momento mi sono detto che non si trattava di uno scherzo. La portineria sprangata… I portinai addormentati. Salgo e, subito dopo il primo pianerottolo, Fanti mi dice: ‹Sente che odore?… › Odore, infatti, come di gas, ma non era gas… era polvere da sparo, cordite… Eppure per le scale non avevano sparato, chè se no avrei trovata tutta la casa sveglia… Al secondo piano due usci, uno chiuso, l'altro aperto… Questo qui… E si vedeva la sala d'ingresso illuminata. Sulla porta, il nome di Giannetto Aurigi. Entro. Lì, nell'ingresso, niente, ma tutte le luci accese. Giriamo. Laggiù una porta chiusa. La camera del domestico, evidentemente. Vuota. C'era il panciotto a righe azzurre del cameriere e i pantaloni e la giacca buttati sul letto. Da quella parte, pure sull'ingresso, la cucina. Vuota. Lì, la camera da pranzo, buia, l'unica buia, e vuota. Qui, nessuno. Lì, un altro salottino e steso per terra, contro il divano, un uomo morto.»

Aveva parlato in fretta, animandosi, e si fermò per riprendere fiato. De Vincenzi lo ascoltava e cercava di seguire le parole sue e di non pensare a tutto quel tumulto di sensazioni e di sentimenti che l'agitava.

Maccari riprese:

«Un uomo morto… Un foro di pallottola alla tempia… Un filo di sangue sul volto. L'uomo era in frak. Lo frugo…

Si cercò nelle tasche. Tirò fuori un piccolo portafogli di marocchino verde. Lo palpò un poco e poi lo tese al collega.

«Eccotelo… Questo è il suo portafogli. Piccolo per via del frak. Dentro ci sono cinquecento lire e sette o otto biglietti da visita.»

De Vincenzi aveva preso la busta di cuoio verde e l'aveva aperta. Senza fretta. Senza curiosità. In lui si era creato insensibilmente uno stato d'animo strano: doveva vedere, voleva vedere, e quasi non poteva o, per meglio dire, ritardava i movimenti per farlo, come se volesse di conseguenza ritardare l'effetto di essi.

«Mario Garlini!»

Aveva trovato i biglietti da visita per primi e aveva letto il nome. Un sussulto lo fece sobbalzare.

«È un agente di cambio… »

«Era, vuoi dire. Adesso è un defunto. Sì, proprio così, era un agente di cambio. Ma era anche qualche cosa di più. La banca Garlini è sua. Si parla di trenta o quaranta milioni suoi, di patrimonio.»

Maccari alzò le spalle e scosse la testa. Trenta o quaranta milioni: quanti! Lui non li avrebbe mai visti. Ma quell'altro non li poteva vedere più. In fondo, non c'era differenza tra loro, adesso. Lui viveva senza tutti quei milioni e quindi non viveva. L'altro era morto e i milioni non erano più suoi. Era triste quella sera, Maccari, e concluse tra sè: siamo morti tutti e due.

Ma ad alta voce disse soltanto:

«Bah! Adesso non può più servirsene.»

Tanto per dir qualcosa, De Vincenzi fece una domanda, che era la più semplice che potesse fare, per cominciar le indagini.

«Segni di lotta?»

«Nessuno. Neppure una sedia rovesciata. Deve essere stato colpito mentre era seduto. È scivolato col corpo in terra.»

«L'arma?»

«Niente! Se non l'hanno nascosta in qualche luogo della casa, il che mi sembra poco probabile, se la sono portata via. Così, si spiegherebbe anche l'odore di polvere per le scale e questo vorrebbe dire che, appena fatto il colpo, chi ha sparato è fuggito.»

«E poi?»

«E poi… Che vuoi?… Subito ho sentito che l'affare era serio e non soltanto per quei trenta o quaranta milioni del morto. C'è qualcosa che non canta bene in tutto questo. Non mi domandare che cosa, perché non lo so. È un'impressione mia. Ma così forte che, dopo aver telefonato al medico, ho subito telefonato a te. Sbrigatela tu!… Giacché posso, io non voglio occuparmene… »

De Vincenzi si alzò. Mormorò, tanto per seguire la logica di Maccari:

«Bah!… »

Ma fece uno sforzo per liberarsi da quell'intorpidimento, da cui si sentiva invaso, e continuò:

«Non hai fatto svegliare i portinai? Non hai suonato alla porta dell'appartamento vicino?»

«Niente. Però avrai visto: il portone è piantonato e su questo pianerottolo c'è un agente.»

«Ho visto… »

Fece un movimento brusco e deliberatamente andò verso l'uscio di sinistra, quello che dava nel salottino. Guardò il morto e non ne ricevette nessuna impressione. Soltanto chiese a se stesso, quasi con rancore verso quel cadavere: «Perché è morto?… » Era una domanda senza risposta, naturalmente. Ma in certo modo una risposta c'era e De Vincenzi la formulò a se stesso, voltandosi verso il collega ad osservargli:

«Era giovane, ancora… »

«Trentacinque o trentasei anni. Giovane.»

«L'hai frugato completamente?»

«No, per non muoverlo. Aspettavo il dottore.»

De Vincenzi tornò a guardar dentro il salottino. Era un salottino banale: un divano azzurro e due poltrone; un tavolo, una consolle, qualche quadro, nessuna fotografia. In fondo, di faccia, un'altra porta. Non volle traversar quel salotto subito.

«E quella porta?» chiese.

«La stanza da letto.»

«Illuminata?»

«Sì.»

«Il letto?»

«Fatto. Con la piega alle lenzuola e il pigiama disteso e pronto. È chiaro che non sì è coricato.»

«È l'ultima camera dell'appartamento, quella?»

«No. Un'altra porta. Era chiusa. Ho appena guardato: il bagno. M'è sembrato vuoto.»

Il brigadiere Cruni con l'agente Rossi erano rimasti sulla porta, in anticamera. Ma guardavano e ascoltavano. De Vincenzi sentì quasi, in quel momento, il peso del loro sguardo addosso a sé e chiamò subito:

«Cruni!»

Il brigadiere, con un piccolo balzo di soddisfazione, avanzò.

«Andate a vedere nel bagno.»

Cruni vi si precipitò.

De Vincenzi si volse a Maccari.

«Fuori, per la nebbia, le strade sono bagnate. Hai trovato tracce di passi?»

L'altro indicò il pavimento:

«Non vedi da te? Niente!… Venuti in auto, si capisce… »

Tra i due si fece il silenzio.

Maccari si abbottonava il pastrano, accingendosi ad andarsene. De Vincenzi si tolse il suo. Troppo caldo in quell'appartamento: neppure il cadavere nella stanza vicina era riuscito a raffreddarlo. C'era un'aria pesante, bruciata: l'aria dei termosifoni troppo bollenti, che non mandano vapore e che lo assorbono. Aridità. Eccolo il senso! Era un senso di arido, che De Vincenzi si sentiva in bocca. Anche tra le giunture delle dita aveva quella sensazione. Voleva reagire. Avrebbe certo continuato ad interrogare Maccari, se in quel momento non si fosse sentito suonare il campanello e dall'ingresso una voce che diceva: «Aprite. C'è il dottore.»

Maccari e De Vincenzi si scossero.

«Ha fatto presto!» osservò Maccari.

Lui avrebbe preferito che il dottore avesse ancora tardato qualche minuto. Non voleva farsi prendere nell'ingranaggio di quell'inchiesta.

Il dottore comparve, quasi di corsa. Era giovane, magro, con il naso aquilino e tagliente come un rostro, e gli occhiali. Sembrava ancora uno studente, che non mangiasse tutti i giorni. Aveva una busta nera sotto il braccio. Doveva essere quello uno dei suoi primi servizi comandati. Uno dei suoi primi delitti. Un cadavere da studiare. Sentiva tutta l'importanza della cosa e di sé. Si vide davanti quei due e andò loro incontro con la mano tesa.

«Buona notte, signori… Dottor Sigismondi, della Guardia medica di via Agnello… »

Gli altri due si presentarono.

«Si trova lì dentro… » gli disse De Vincenzi, indicando la porta di sinistra. «È morto. La prego, dottore, di voler segnare la posizione esatta del corpo… Si faccia aiutare da un agente… Voi, Rossi… mettetevi a disposizione del dottore… E la prego, dottore, di spogliarlo e di farmi consegnare gli abiti, procurando che non cada nulla dalle tasche. Ma prima lo esamini bene. Veda se c'è stata lotta… e da quanto tempo lo hanno ucciso… »

Il dottore volle aver l'aria di non essere alle prime armi e rispose, come per insegnargli qualcosa:

«Approssimativamente, vuol dire. Nessuno può stabilire con esattezza da quanto tempo un uomo è morto. Oppure si potrebbe anche stabilirlo; ma con gli strumenti adatti e prendendo la temperatura dell'ambiente… e tutte queste cose qui mancano… »

Intanto, s'era tolto il cappello e il pastrano e stava per dirigersi verso l'uscio indicatogli, quando da quello uscì il brigadiere Cruni. Aveva il volto soddisfatto. Con una strana intonazione di voce, come se volesse farsi sentire da tutti, disse:

«Nulla, cavaliere! Il bagno è vuoto.»

S'era guardato attorno e si avvicinò a De Vincenzi, facendogli un segno d'intelligenza.

«Parla,» gli disse il commissario.

Il brigadiere parlò a voce bassissima, quasi soffocata:

«Guardi lei, di là… Il bagno è in disordine. Si direbbe che c'è stata una lotta. E per terra ho trovato questo… »

De Vincenzi prese l'oggetto, che Cruni gli tendeva e l'osservò attentamente. Era una fialetta di profumo, d'oro, uno di quegli oggettini graziosi, che le signore portano nella borsetta. Tutta cesellata. La prese fra due dita e la sollevò contro luce per guardarvi attraverso. Mormorò:

«Incolore… »

Annusò e poi subito si volse:

«Dottore!»

«Dica… »

«Guardi un po'… » e gli porse la fialetta.

Il dottore l'osservò, la sturò e se l'accostò al naso.

«Mandorle amare!… Dove l'ha trovata? Strano!… »

«Strano, che cosa?»

«Che possa aver trovata questa fiala altrove che al suo posto naturale!… »

«E quale sarebbe, secondo lei, il… posto naturale di quella fiala?»

«Un ospedale o una farmacia… Non credo di ingannarmi, dicendole che qui dentro c'è acido prussico… »

E il giovane continuava a guardar la fiala.

Maccari e De Vincenzi tacevano. Avevano sentito un brivido alla schiena.

Eppure, il morto era stato ucciso con un colpo di rivoltella… Che cosa c'entrava, adesso, l'acido prussico?