La Marcia su Roma

Scritti e discorsi degli anni 1921-1922

 

Benito Mussolini

 

 

 


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ISBN: 9783967995138

 

 

 

PREFAZIONE

 

 

Articoli di Benito Mussolini pubblicati sul quotidiano “Il Popolo d’Italia”, in un periodo temporale che inizia con il primo discorso alla camera (21 giugno 1921) e si conclude con l’arringa alla grande adunata fascista di Napoli, del 24 ottobre 1922, che anticipa di pochi giorni la “Marcia su Roma”.

Mussolini è un oratore e scrittore forbito, pungente contro gli avversari e pugnace nelle proprie idee.

Questa raccolta è una straordinaria testimonianza storica della strada che condusse alla marcia su Roma e alla presa del potere da parte del fascismo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL PRIMO DISCORSO ALLA CAMERA DEI DEPUTATI

(Segni di attenzione). Non mi dispiace, onorevoli colleghi, di iniziare il mio discorso da quei banchi dell’estrema destra, dove, nei tempi in cui lo spaccio della bestia trionfante aveva le sue porte spalancate ed un commercio avviatissimo, nessuno osava più sedere.

Vi dichiaro subito, con quel sovrano disprezzo che ho di tutti i nominalismi, che sosterrò nel mio discorso tesi reazionarie.

Sarà quindi il mio un discorso non so quanto parlamentare nella forma, ma nettamente antidemocratico e antisocialista nella sostanza (approvazioni all’estrema destra); e quando dico antisocialista, intendo dire anche antigiolittiano (ilarità), perché non mai come in questi giorni fu assidua la corrispondenza d’amorosi sensi tra l’onorevole Giolitti e il Gruppo parlamentare socialista. Oso dire che fra di essi esiste il broncio effimero degli innamorati, non già l’irreconciliabilità irreparabile dei nemici.

Ciò non ostante ho la immodestia di affermare che il mio discorso può essere ascoltato con qualche utilità da tutti i settori della Camera. In primo luogo dal Governo, il quale si renderà conto del nostro atteggiamento verso di lui; in secondo luogo dai socialisti, i quali, dopo sette anni di fortunose vicende, vedono innanzi a sé, nell’atteggiamento orgoglioso dell’eretico, l’uomo che essi espulsero dalla loro chiesa ortodossa. D’altra parte essi mi ascolteranno perché, avendo io tenuto nel pugno le vicende del loro movimento per due anni, forse nel loro cuore sono anche delle segrete nostalgie. (Commenti).

Potrò essere ascoltato con interesse anche dai popolari e da tutti gli altri gruppi e partiti. Infine, poiché io mi riprometto di precisare alcune posizioni politiche, e oserei dire storiche, di quel movimento così complesso e così forte che si chiama fascismo, può darsi che il mio discorso provochi conseguenze politiche degne di qualche rilievo.

Vi prego di non interrompermi, perché io non interromperò mai nessuno; e aggiungo fin da questo momento che farò un uso assai parco in questo ambiente della mia libertà di parola.

E vengo all’argomento.

Nel discorso della Corona, voi, onorevole Giolitti, avete fatto dire al sovrano che la barriera alpina è tutta in nostro potere. Io vi contesto l’esattezza geografica e politica di questa affermazione. A pochi chilometri da Milano, noi non abbiamo ancora, a difesa di tutta la Lombardia e di tutta la valle del Po, la barriera alpina. Tocco un tasto molto delicato; ma d’altra parte in questa Camera e fuori tutti sanno che nel Canton Ticino, che si sta tedeschizzando e imbastardendo, affiora un movimento di avanguardie nazionali, che io segnalo e che noi fascisti seguiamo con viva simpatia.

Che cosa fa il Governo presente per difendere la barriera alpina al Brennero e al Nevoso? La politica seguita da questo Governo, per ciò che riguarda l’Alto Adige, è quanto di più lacrimevole si possa immaginare.

L’onorevole Credaro avrà i numeri per governare un asilo infantile (ilarità), ma io nego recisamente che abbia le qualità necessarie e sufficienti per governare una regione mistilingue dove il contrasto delle razze è antico e acerbissimo.

Altro responsabile della situazione difficile che gli italiani hanno nell’Alto Adige è il signor Salata. Egli ha regalato il collegio di Gorizia agli sloveni e ha regalato quattro deputati tedeschi alla Camera italiana.

Del resto, l’onorevole Credaro appartiene a quella categoria di personaggi, più o meno rispettabili, che sono schiavi dei cosiddetti immortali principi, i quali consistono nel ritenere che ci sia un solo Governo buono in questo mondo, che esso sia applicabile a tutti i popoli, in tutti i tempi, in tutte le parti del mondo.

Mi permetto di esporre alla Camera i risultati di una mia inchiesta personale sulla situazione dell’Alto Adige.

Il movimento politico antitaliano nell’Alto Adige è monopolizzato dal Deutscher Verband, il quale è la emanazione dell’Andreas Hoferbund, che ha sede a Monaco, e che rivendica quale confine tedesco non già la stretta di Salorno, ma la Bern Clause o chiusa di Verona.

Ora il signor Credaro è responsabile della propaganda pangermanista nell’Alto Adige, perché ha avallato, prefazionandolo, un libro dove si dice che il confine naturale della Germania è ai piedi delle Alpi, verso la valle del Po.

Nei primi tempi, immediatamente dopo l’armistizio, della occupazione militare, il movimento italofobo non fu possibile, ma da quando per somma sventura sulla seggiola di governatore si pose l’onorevole Credaro, i rapporti cambiarono immediatamente; e alla sottomissione sorniona si sostituì l’insolente arroganza di gente che negava la disfatta austriaca e covava nell’animo le ardenti nostalgie degli Absburgo. La fiera campionaria fu voluta dalla Camera di commercio di Bolzano, nido di pangermanisti, con esclusione di ditte italiane, tanto vero che gli inviti furono fatti solo in lingua tedesca e durante il periodo della fiera una banda bavarese in costume suonò continuamente.

Vengo ai fatti del 24 aprile, quando una bomba fascista, giustamente collocata a scopo di rappresaglia e per la quale rivendico la mia parte di responsabilità morale (vive approvazioni, commenti), segnò il limite al di là del quale il fascismo non intende che vada l’elemento tedesco.

La manifestazione del 24 aprile nel Tirolo non era che una manifestazione simultanea al plebiscito che in quel giorno oltre il Brennero era stato indetto.

Perché, nell’Alto Adige, i pangermanisti ricorrono a questo sottile trucco: di far coincidere le stesse manifestazioni sotto veste diversa. Così quando oltre Brennero si fecero le cerimonie di lutto per la perdita dell’Alto Adige, di qua del Brennero si commemorò con altrettanta manifestazione il lutto per la morte dei caduti di guerra per l’Austria-Ungheria!

Del resto, quando i fascisti si presentarono a Bolzano, trovarono una polizia con tanto di elmo e fiocco; e quando furono arrestati, l’istruttoria fu affidata al conte Breitemberg, il quale è notoriamente socio della Deutscher Verband.

Non vi voglio intrattenere sui casi di Mamelter perché formano un capitolo da romanzo; ma non posso rinunciare a citarvi un episodio curiosissimo.

Il commissario di Merano si reca al comune di Maia Alta, ed è ricevuto non già al municipio, ma in una stamberga nella quale si sono radunati il sindaco ed i consiglieri. Il commissario legge la formula del giuramento, il sindaco ed i consiglieri immediatamente si mettono a sedere, si coprono il capo e scoppiano in una grande risata. Il commissario non si è ancora rimesso dalla sorpresa che il sindaco, levatosi in piedi, con una valanga d’insulti lancia ingiurie al re, alla monarchia, all’Italia e al commissario. Questi ritorna a Merano e domanda a Trento lo scioglimento di quel Consiglio; ma interviene il Deutscher Verband presso il governatore. E Salata restituisce il rapporto scrivendo al commissario che non è bene fare dell’irredentismo. E la rappresentanza del Comune rimase quale era!

Da quando Credaro sgoverna nell’Alto Adige la bilinguità è totalmente scomparsa. Il Perathoner, che non è altro che un Pierantoni, rinnegato italiano diventato tedesco, si rifiuta di accettare la deposizione che egli stesso invita a fare sui fatti del 24 aprile, perché narrata e scritta in italiano. Sono piccoli episodi analitici, ma che danno il panorama della situazione.

A Malgré, l’italofobo Dorsi don Angelo, presidente del Circolo giovanile cattolico di San Stefano, fa cacciare da questo una decina di giovani perché hanno presentato a lui domande scritte in italiano, ed afferma che la lingua italiana non serve per i suoi uffici: l’italiano tenetevelo per voi! Ciò evidentemente è fatto allo scopo di alterare i documenti e di ritardare i pagamenti delle pensioni a coloro che ne hanno diritto. E a presidente della Corte di Appello di Trento, redenta, italiana, tra tutti i concorrenti si è scelto un tale che nel 1915 si dimise da magistrato per poter correre volontario, come Kaiserjäger, a servizio dell’Austria-Ungheria! Costui oggi amministra giustizia nel nome dell’Italia! (Commenti).

Credete che le comunicazioni postali e telegrafiche dell’Alto Adige siano in mani italiane? È un errore, è una illusione: il Deutscher Verband ha in mano tutte le comunicazioni e ne dispone a piacimento. Il 24 aprile, per quanto giorno festivo, i pangermanisti e i capi del movimento di Innsbruck erano informati minuto per minuto dello svolgersi dei fatti di Bolzano.

A Innsbruck, cinque minuti dopo l’incidente, si conosceva la portata di esso in tutti i suoi particolari, mentre venivano tagliate tutte le comunicazioni colle autorità civili e militari e per quasi ventiquattro ore isolate completamente da Trento e dal resto d’Italia.

Questa è la situazione.

Ma a questo punto io debbo chiamare in causa l’onorevole Luigi Luzzatti. Io l’ho già chiamato in causa sul mio giornale; ma siccome quest’uomo appartiene alla specie dei padri eterni più o meno venerabili e venerandi, non si è degnato ancora di rispondere. Ora io spero che, chiamandolo in causa alla tribuna parlamentare, si deciderà di rispondere ad un quesito, che gli pongo nella maniera più chiara e categorica.

Il Nuovo Trentino, un giornale molto serio che esce a Trento, il 27 maggio scrive:

«L’onorevole Luigi Luzzatti, cavaliere della SS. Annunziata, relatore della Commissione parlamentare che esaminò ed approvò il trattato di San Germano, disse in presenza di Salata, del barone Toggenburg, già ministro austriaco di Francesco Giuseppe, del tenente austriaco Reuth Nicolussi: “Avere scritto nella relazione al Parlamento il passo riguardante l’autonomia dell’Alto Adige, aggiungendo però essere sua opinione personale che la regione tedesca dell’Alto Adige avrebbe fatto bene a non mandare alcun deputato al Parlamento di Roma, giacché essa avrebbe avuto poi, s’intende dall’Italia, istituzioni proprie e una propria rappresentanza politica, rimanendo così a suo agio unita all’Italia fino a che avesse potuto ricongiungersi alla sua nazione”».

Ora noi contestiamo a Luigi Luzzatti, fosse egli anche più sapiente o più grande di quello che in realtà non sia, il diritto di disporre del territorio italiano. (Approvazioni, commenti).

E allora, signori del Governo, per la situazione dell’Alto Adige, noi vi domandiamo queste immediate misure:

Lo sfasciamento di ogni forma, anche esteriore, che ricordi la monarchia austro-ungarica. Perché è inutile, onorevole Sforza, fare dei patti per tutti gli eredi austriaci, più austriaci dell’Austria, per impedire il ritorno degli Absburgo, quando noi lasciamo intatta gran parte dell’Austria dentro i nostri confini.

Scioglimento del Deutscher Verband.

Deposizione immediata di Credaro e Salata. (Approvazioni all’estrema destra).

Provincia unica Tridentina con sede a Trento e stretta osservanza della bilinguità in ogni atto pubblico ed amministrativo.

Non so quali misure saranno adottate dal Governo, ma dichiaro qui, senza assumere pose solenni, e lo dichiaro ai quattro deputati tedeschi, che essi debbono dire e far sapere oltre Brennero che al Brennero ci siamo e ci resteremo a qualunque costo. (Applausi. Giolitti, presidente del Consiglio dei ministri, ministro dell’Interno: «Su questo siamo tutti d’accordo». Vivi applausi).

Prendo atto con molto piacere della dichiarazione esplicita, fattami in questo momento dal presidente del Consiglio.

Nel discorso della Corona si parla di Alpi che scendono al Carnaro. Ora si desidera sapere se queste Alpi comprendono Fiume o l’escludono.

Io deploro che nel discorso della Corona non ci sia stato un accenno all’azione esplicata da Gabriele d’Annunzio e dai suoi legionari (applausi all’estrema destra), senza la quale noi oggi saremmo col confine al Monte Maggiore e non già al Nevoso.

Un tale accenno era generoso ed anche politicamente opportuno. Io non mi dilungo sul sacrificio della Dalmazia. Ne ha parlato ieri, con molta eloquenza, il mio amico onorevole Federzoni. Ma mi fa sorridere il discorso della Corona quando afferma che Zara deve rappresentare sull’altra sponda un faro di luce italiano. Zara è una città assassinata di fronte al mare slavo, e al retroterra completamente slavo. C’è a Zara oggi un Buonfanti Linares, che, se vi rimarrà ancora, sarà causa di fieri e seri incidenti.

Sempre in tema adriatico, o signori del Governo, non possiamo dimenticare, noi che parliamo per la prima volta in quest’aula, il contegno che avete tenuto di fronte all’impresa di Fiume; non possiamo dimenticare che voi avete attaccato Fiume alla vigilia di Natale, utilizzando anche i due giorni di sospensione di tutti i giornali; non possiamo dimenticare che avete imposto l’accettazione del trattato di Rapallo con un atto di violenza e di crudeltà raffinata. Quando il 28 dicembre il generale Ferrario disse che «non poteva sospendere l’ordine di esecuzione di bombardamento, che avrebbe raso al suolo Fiume», quel generale e il Governo, che gli ordinava di agire in quel modo, si misero un poco fuori dai limiti della coscienza e della dignità nazionale. E non possiamo dimenticare nemmeno quel foglio riservatissimo numero 22 del generale Ferrario, in cui per il giorno di Natale si dava un soprassoldo, più o meno lucroso, a soldati italiani, che andavano a combattere contro altri italiani. (Approvazioni a destra).

Avete posto un coltello al collo di Fiume, ma non avete risolto il problema di Fiume. Avete mandato là il comandante Foschini, con un piano diabolico di realizzare un Governo, che accetti i patti che sono stati convenuti col signor Quartieri a Belgrado, che accetti cioè quel consorzio, che è la rovina, se non immediata, mediata del porto di Fiume, perché voi sapete che dopo dodici anni porto Baross e il Delta dovrebbero andare alla Jugoslavia, perché voi ora alla Jugoslavia l’avete già consegnato e, se non l’avete consegnato, avreste dovuto fare già delle dichiarazioni specifiche, che sono mancate.

Infine quali sono gli orientamenti della nostra politica estera di fronte a quel vasto focolare di discordie che il trattato di pace, o meglio i vari trattati di non pace, hanno lasciato in tutte le parti del mondo?

Non vi parlo del focolare di discordie greco-turche, quantunque esso possa avere delle complicazioni impensate, se è vero, come si dice, che Lenin è alleato di Kemal Pascià e manda già le avanguardie degli eserciti rossi verso l’Asia Minore. Non vi parlo dell’Alta Slesia, perché non sono ancora riuscito a decifrare il punto di vista del nostro Governo. Non vi parlo degli avvenimenti di Egitto, ma non posso tacere sulla sorte che si prepara al Montenegro.

Come ha perduto la sua indipendenza il Montenegro? De jure non l’ha mai perduta; ma de facto l’ha perduta nell’ottobre 1918. E pure il conte Sforza mi insegna che l’indipendenza del Montenegro era completamente garantita dal patto di Londra del 1915, che prevedeva l’ingrandimento del Montenegro a spese dell’Austria e la restituzione di Scutari; dalle condizioni di pace esposte da Wilson agli Alleati, in cui l’esistenza indipendente del Montenegro veniva garantita come quella del Belgio e della Serbia; dalla decisione del Consiglio supremo della conferenza della pace del 13 gennaio 1919, nella quale si riconosceva al Montenegro il diritto di essere rappresentato da un delegato alla conferenza di Parigi. Non solo, ma quando Franchet d’Esperey andò, con alcuni elementi francesi e serbi, in Montenegro, diede ad intendere che avrebbe governato in nome di Sua Maestà re Nicola. Quando, però, re Nicola, la Corte ed il Governo intendevano riguadagnare la Montagna Nera, la Francia, che aveva tutto l’interesse di creare la grande Jugoslavia, per fare da contro-altare nell’Adriatico all’Italia, fece sapere al Governo del Montenegro che avrebbe rotto le relazioni diplomatiche se il re e la sua Corte fossero ritornati a Cettigne.

Quale è stata la politica italiana in questo frangente?

L’onorevole Federzoni ha ieri parlato di una convenzione, che è diventata uno straccio di carta, ed è la convenzione del 30 aprile 1919. In questa convenzione sono chiaramente stabiliti dei patti tra il Governo d’Italia e il Governo del Montenegro. E si dice precisamente:

«A seguito dell’accordo intervenuto fra il ministro italiano degli Affari Esteri e il Governo del Montenegro (dunque un Governo del Montenegro esisteva ancora in data 30 aprile 1919) rappresentato dal suo console generale in Roma, commendatore Ramanadovich, si costituirà a Gaeta, per cura del Governo montenegrino, un nucleo di militari, ufficiali e truppa, tratti dai profughi montenegrini. Il Governo montenegrino riceverà da quello italiano i fondi in danaro necessari per il pagamento degli assegni, truppa ed ufficiali».

Seguono altre condizioni, fra le quali l’ultima è:

«La presente condizione non può essere modificata che col pieno accordo tra il Governo italiano ed il Governo del Montenegro».

Ora questa convenzione è stata stracciata dopo la morte di Nicola del Montenegro. Si notarono sintomi di disgregazione in mezzo alle truppe montenegrine, ed il comando di queste truppe chiese organi militari al nostro Governo per procedere ad una epurazione. Fu nominata una commissione, che venne presieduta dal colonnello Vigevano. La commissione, che doveva salvare dalla disgregazione l’esercito montenegrino, fu la causa principale della sua dissoluzione. Non solo, ma, in data 27 maggio, il conte Sforza mise nuovamente il coltello alla gola del Governo montenegrino dicendo: «O sciogliete le truppe o non vi darò più i fondi per mantenere questi vostri soldati!».

E con ciò il conte Sforza violava la convenzione 30 aprile 1919, perché in essa era detto: «La presente convenzione non può essere modificata che di pieno accordo fra i due Governi».

Dunque decisione unilaterale, perché il Governo del Montenegro, rappresentato dal suo console generale in Roma, non l’aveva mai accettata.

Ma, infine, il conte Sforza si è giovato dell’esercito montenegrino per un calcolo politico. Agevolandone l’esistenza in Italia, il conte Sforza credeva di potere avere dei patti migliori dalla Jugoslavia. Questo non è avvenuto, ed in un dato momento l’esercito montenegrino è stato buttato sotto il tavolo, come una carta che non si poteva più giuocare.

Il fatto nuovo, le elezioni della Costituente, non basta a giustificare l’abbandono tragico in cui l’Italia ha lasciato il Montenegro, perché solo il venti per cento degli elettori hanno partecipato alle elezioni, e solo il nove per cento ha votato per l’annessione alla Serbia. Le autorità serbe hanno instaurato nel Montenegro un regime di vero terrore e hanno impedito la presentazione di liste che contenessero nomi di candidati favorevoli all’indipendenza del Montenegro.

Ma non riteniate, onorevole Sforza, che la questione del Montenegro sia stata liquidata! Prima di tutto perché il popolo del Montenegro è ancora in armi contro la Serbia, e voi lo sapete; ed in secondo luogo perché il popolo italiano, per una volta tanto, è unanime in tale questione! Persino i socialisti, e lo dico a loro onore, parecchie volte nel loro giornale hanno dichiarato che la causa della indipendenza del Montenegro è sacrosanta. Le università, da quelle di Bologna e di Padova, si sono pronunziate per la indipendenza del Montenegro.

Noi, fascisti, abbiamo presentato una mozione. Voi dovete riscattare la pagina vergognosa che avete scritto assassinando il popolo montenegrino, con l’accettare la nostra mozione.

Se voi l’accetterete, cioè se voi porrete ancora la questione davanti alle grandi potenze, e se farete in modo che sia indetto un plebiscito, io sono certissimo che questo plebiscito, fatto in condizione di libertà, darà dei risultati antiserbi.

Vengo ad un’altra questione, molto delicata.

È una questione che bisogna affrontare, prima di tutto perché la cronaca lo ha imposto, ed in secondo luogo perché, dopo l’allocuzione pontificia davanti al Concistoro segreto di giorni fa, non è più possibile ignorare che esiste una questione della Palestina.

Bisogna scegliere; bisogna che il Governo abbia un suo punto di vista. O sceglie il punto di vista sionistico inglese, o sceglie il punto di vista di Benedetto XV.

Credo di non tediare la Camera ricordando brevemente i precedenti della questione.

Il 2 novembre 1917 il Governo inglese si dichiarava favorevole alla questione della creazione, in Palestina, di un focolare nazionale per il popolo ebraico, restando bene inteso che nulla sarebbe fatto che potesse recare offesa ai diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche esistenti in Palestina, e ai diritti ed agli istituti politici, di cui godono gli ebrei in tutte le altre nazioni del mondo. In un secondo tempo le potenze alleate hanno adottato questa dichiarazione. Finalmente con l’articolo 222 del trattato di pace, sottoscritto il 20 agosto 1920 a Sèvres, la Turchia rinunziava a tutti i suoi diritti sulla Palestina, e le potenze alleate sceglievano come mandataria l’Inghilterra.

Ora, mentre le nazioni civili dell’Occidente non hanno modificato il regime comune di libertà per le diverse confessioni religiose, in Palestina è accaduto tutto il contrario, anche perché l’amministrazione di quello Stato in embrione è stata affidata all’organizzazione politica del sionismo.

Ma in Palestina ci sono seicentomila arabi, che vivono là da dieci secoli, e settantamila cristiani, mentre gli ebrei non arrivano che a cinquantamila. Si è così determinata una situazione straordinariamente interessante. Gli ebrei autoctoni, che hanno vissuto per secoli e secoli all’ombra delle moschee di Gerusalemme, non possono soffrire gli elementi che vengono dalla Polonia, dall’Ucraina, dalla Russia, perché hanno delle arie straordinariamente emancipate; e quelli che sono immigrati si sono già divisi in tre frazioni, una delle quali, che si chiama abbreviatamente Mopsi, è già iscritta regolarmente come frazione comunista alla terza Internazionale di Mosca.

Apro una parentesi, per dire che non si deve vedere nelle mie parole alcun accenno ad un antisemitismo, che sarebbe nuovo in quest’aula. Riconosco che il sacrificio di sangue dato dagli ebrei italiani in guerra è stato largo e generoso, ma qui si tratta di esaminare una determinata situazione politica e indicare quali possono essere le direttive eventuali del Governo.

Ora in Palestina si è determinata l’alleanza tra cristiani ed arabi, si è formato il partito della conferenza di Giaffa, che si oppone colla guerra civile e col boicottaggio ad ogni immigrazione ebraica, ed il 1° maggio ed il 14 maggio si sono verificati disordini sanguinosi, in cui ci sono stati qualche centinaio di feriti e vari morti, tra i quali uno scrittore di una certa fama. Ora, a quanto si legge sul Bulletin du Comité des délégations juives, a pagina 19, pare che il testo del mandato inglese per la Palestina debba essere sottomesso al Consiglio della Società delle nazioni nella prossima riunione di Ginevra. Ed io desidererei che il Governo accettasse, in questa questione delicatissima, il punto di vista espresso dal Vaticano.

Ciò è anche negli interessi degli ebrei, i quali, fuggiti ai pogroms dell’Ucraina e della Polonia, non devono incontrare i pogroms arabici della Palestina, ed anche perché non si determini nelle nazioni occidentali una penosa situazione giuridica per gli ebrei, in quanto, se domani gli ebrei fossero cittadini sudditi del loro Stato, potrebbero diventare immediatamente colonie straniere negli altri Stati.

Oh, io non voglio allargarmi in tema di politica estera, perché allora potrei navigare in alto mare e potrei domandare al conte Sforza qual è la posizione dell’Italia nei formidabili conflitti che si delineano nell’agone internazionale. Ma, in fondo, il conte Sforza fa una politica che è riflessa dai suoi lineamenti di un diplomatico blasé (si ride)…. dell’uomo che ha molto vissuto, che ha molto visto, del diplomatico di carriera, in fondo scettico e senza pathos. (Si ride).

Finché al Governo di Giolitti vi sia, titolare della politica estera, il conte Sforza, noi non possiamo che trovarci all’opposizione. (Commenti).

Passo alla politica interna. Vengo cioè a precisare la posizione del fascismo di fronte ai diversi partiti.

(Segni di attenzione).

Comincio dal Partito Comunista.

Il comunismo, l’onorevole Graziadei me lo insegna, è una dottrina che spunta nelle epoche di miseria e di disperazione. (Commenti).

Quando la somma dei beni è decimata, il primo pensiero che balza alla mente degli umani è quello di mettere tutto in comune, perché ce ne sia un po’ per tutti. Ma questa non è che la prima fase del comunismo, la fase del consumo; dopo vi è la fase della produzione, che è enormemente difficile, tanto difficile che quel grande, quel formidabile artista (non già legislatore) che risponde al nome di Vladimiro Uljanov Lenin, quando ha dovuto foggiare il materiale umano, si è accorto che esso è più refrattario del bronzo e del marmo. (Approvazioni, commenti).

Conosco i comunisti. Li conosco perché parte di loro sono i miei figli…. intendiamoci…. spirituali (ilarità, commenti; presidente: «non è ammessa la ricerca della paternità, onorevole Mussolini!»; si ride)…. e riconosco con una sincerità che può parere cinica, che io per primo ho infettato codesta gente, quando ho introdotto nella circolazione del socialismo italiano un po’ di Bergson mescolato a molto Blanqui.

C’è un filosofo al banco dei ministri, ed egli certamente m’insegna che le filosofie neo-spiritualistiche, con quel loro ondeggiare continuo fra la metafisica e la lirica, sono perniciosissime per i piccoli cervelli. (Ilarità).

Le filosofie neo-spiritualistiche sono come le ostriche: gustosissime al palato…. ma bisogna digerirle! (Ilarità).

Codesti miei amici o nemici…. (Voci all’estrema sinistra: «Nemici! Nemici!»).

Questo è pacifico, dunque!… Codesti miei nemici hanno mangiato Bergson a venticinque anni e non lo hanno digerito a trenta.

Mi stupisco molto di vedere tra i comunisti un economista della forza di Antonio Graziadei, col quale io ho lungamente polemizzato quando egli era ferocemente riformista…. (ilarità) e aveva buttato sotto il tavolo Marx e le sue dottrine. Finché i comunisti parleranno di dittatura proletaria, di repubbliche più o meno federative, dei Sovièts, e di simili più o meno oziose assurdità, fra noi e loro non ci potrà essere che il combattimento. (Interruzioni all’estrema sinistra, commenti, rumori. Presidente: «Non interrompano! Lascino parlare!»).

Commenti all’estrema sinistra